LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
21376-2011 proposto da: 
        B. A. (c.f.), T.A. (c.f.), elettivamente domiciliate in Roma,
viale Mazzini 114/B, presso  l'avvocato  Roberto  Di  Mattei  (Studio
associato Coletta), che le  rappresenta  e  difende  unitamente  agli
avvocati Francesco Bilotta, Anna Maria  Tonioni,  giusta  procura  in
calce al ricorso; ricorrenti; 
    Contro  Ministero  dell'Interno,  in  persona  del  Ministro  pro
tempore,  domiciliato  in  Roma,  via  Dei  Portoghesi,  12,   presso
l'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e  difende  ope
legis; controricorrente; 
    Contro Procuratore generale  della  Repubblica  presso  la  Corte
d'appello di Bologna, Comune di Finale Emilia,  Procuratore  generale
della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione; intimati; 
    Avverso il decreto della Corte d'appello di Bologna depositato il
18 maggio 2011, n. 859/10 R.G.V.G.; 
    udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
12 febbraio 2013 dal Consigliere dott. Maria Acierno; 
    udito, per i  ricorrenti,  gli  Avvocati  Anna  Maria  Tonioni  e
Francesco Bilotta che hanno chiesto l'accoglimento del ricorso; 
    udito, per il controricorrente, l'Avvocato  dello  Stato  Attilio
Barbieri che ha chiesto il rigetto del ricorso; 
    udito il P.M., in  persona  del  Sostituto  procuratore  generale
Dott. Costantino Fucci che ha concluso per l'accoglimento del ricorso
per quanto di ragione. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    A. B., unito in matrimonio  con  A.T.,  ha  proposto  domanda  di
rettificazione di  sesso  ed  attribuzione  del  sesso  femminile  al
Tribunale di Bologna. Il coniuge  e'  stato  regolarmente  citato  in
giudizio. Il P.M. vi ha partecipato ai sensi dell'art. 70 cod.  proc.
civ. Con sentenza n. 23 del 2009, passata in giudicato, il  Tribunale
ha disposto la rettificazione di  sesso  con  attribuzione  di  sesso
femminile e modifica del prenome della parte ricorrente in  A.  Nella
pronuncia si e' ordinato all'ufficiale di stato civile del Comune  di
Mirandola di provvedere alla rettifica dell'atto di nascita  relativo
ad A.B. in conformita' alla sentenza pronunciata, ex art. 2 legge  n.
164 del 1982. 
    In data 16 ottobre 2009 la sentenza del Tribunale di  Bologna  e'
stata annotata a margine  dell'atto  di  matrimonio,  trascritta  nel
Registro degli atti  dello  stato  civile  di  Finale  Emilia  e  nel
Registro  degli  atti  di   matrimonio   del   Comune   di   Bologna.
L'annotazione eseguita e' la seguente: 
        «con sentenza n. 23/2009 del Tribunale di Bologna  l'atto  di
nascita di B. A. in data 14 ottobre 2009 e' stato rettificato in modo
che la' dove e' scritto "maschile" ad  indicare  il  sesso  del  nato
debba leggersi ed intendersi "femminile" e la' dove e'  scritto  "A."
ad indicare il nome debba leggersi "A.",  pertanto  B.A.  coniuge  di
T.A. ha assunto il nuovo prenome B.A., come  da  annotazione  apposta
all'atto di nascita n. 280, Parte I, Serie A, Anno 1971 del Comune di
Mirandola». Oltre a tale annotazione in  data  18  novembre  2010  e'
stata aggiunta la seguente formula: «la sentenza sopra menzionata  ha
prodotto ai sensi  dell'art.  4  della  legge  n.  164  del  1982  la
cessazione degli  effetti  civili  del  matrimonio  di  cui  all'atto
controscritto a far data dal 29 giugno 2009, cosi' come  previsto  al
paragrafo 11.5. del nuovo massimario dello stato civile». 
    In precedenza, in data 19 marzo 2010 il Comune di  Finale  Emilia
aveva  comunicato  la  variazione  anagrafica  per  cessazione  degli
effetti civili di matrimonio agli uffici dell'Anagrafe del Comune  di
Mirandola e  di  Bologna  ai  fini  delle  annotazioni  e  variazioni
anagrafiche di competenza. A seguito di tale comunicazione il  Comune
di Bologna ha apposto l'annotazione da  ultimo  descritta  a  margine
dell'atto di nascita di A.T. e degli atti di matrimonio. 
    Hanno proposto ricorso presso il Tribunale di Modena A.B. e  A.T.
ai sensi dell'art. 95  del  d.P.R.  n.  396  del  2000  chiedendo  la
rettificazione delle predette annotazioni e la loro cancellazione, in
quanto apposte in assenza dei requisiti di legge. 
    Il Ministero dell'Interno si e' costituito chiedendo  il  rigetto
del ricorso ed il Tribunale di Modena, in accoglimento della domanda,
ha dichiarato illegittima l'annotazione in oggetto e ne  ha  disposto
la  cancellazione,  perche'  eseguita  in  assenza  delle  condizioni
previste dall'art. 02 del citato d.P.R. n. 396 del  2000,  affermando
in particolare che l'annotazione di scioglimento del  matrimonio  per
l'avvenuta rettificazione di attribuzione  di  sesso  puo'  eseguirsi
solo in  ragione  di  una  sentenza  dell'autorita'  giudiziaria  che
dichiari la cessazione del vincolo coniugale. 
    Avverso tale  provvedimento  ha  proposto  reclamo  il  Ministero
dell'Interno; si sono costituite le ricorrenti  in  primo  grado.  Il
P.M. ha aderito al reclamo. La  Corte  d'Appello  di  Bologna  lo  ha
accolto sulla base delle seguenti argomentazioni: 
        l'annotazione  non  e'  stata   disposta   fuori   dei   casi
consentiti, trattandosi di un doveroso aggiornamento  cui  e'  tenuto
l'ufficiale dello stato civile, dal momento  che  nel  sistema  unico
integrato non possono darsi atti relativi alla stessa persona che non
si corrispondano. Peraltro, in mancanza  dell'annotazione  contestata
sarebbe  A.  (declinato  al  maschile)  e  non  A.  a  essere  ancora
coniugato; 
        i cambiamenti di nome e di sesso  vanno  annotati  anche  nel
registro degli atti di matrimonio (art. 69 d.P.R. n. 396  del  2000).
La successiva annotazione del 18 novembre 2010  costituisce  la  mera
riproduzione   della   lettera   della   norma   che   qualifica   la
rettificazione di sesso una  causa  di  scioglimento  automatico  del
matrimonio; 
        l'art. 4 della legge n. 164 del 1982 non  e'  stato  abrogato
dalla  modificazione  dell'art.  3  della  legge  n.  898  del  1970,
intervenuta ex legge n. 74  del  1987,  essendo  gia'  contenuto  nel
citato art. 4 il rinvio alla legge n. 898 del 1970 per la  disciplina
dello scioglimento del  matrimonio,  ragione  per  cui  le  modifiche
successive ne costituiscono una precisazione non incompatibile con il
sistema preesistente; 
        del tutto incompatibile e' invece l'interpretazione  proposta
dalle  resistenti,  perche'  consentire  il  permanere  del   vincolo
matrimoniale, rettificato che  sia  il  sesso  di  uno  dei  coniugi,
significa mantenere in vita un rapporto privo del suo  indispensabile
presupposto di legittimita',  la  diversita'  sessuale  dei  coniugi,
dovendosi  ritenere  tutta  la  disciplina  normativa   dell'istituto
rivolta ad affermare tale  requisito.  L'interpretazione  prospettata
dalle resistenti della modifica introdotta con la  legge  n.  74  del
1987 all'art. 3 della  legge  n.  898  del  1970  sarebbe  del  tutto
contrastante con i  principi  di  ordine  pubblico  che  regolano  la
materia, dal momento che non possono darsi rapporti in contrasto  con
la disciplina positiva che li regola, trattandosi di un settore, come
quello che concerne lo stato delle persone, di pubblico interesse. 
    Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per  cassazione
A.  B.  ed  A.  T.  Ha  resistito  con  controricorso  il   Ministero
dell'interno. 
    Nelle articolate censure proposte dalle ricorrenti si deduce, tra
l'altro ed in particolare, che la affermazione  implicita,  contenuta
nel  provvedimento  impugnato,  che  non   sarebbe   necessaria   una
dichiarazione giudiziale di scioglimento del vincolo quando sia stata
pronunciata la rettificazione di sesso viola il principio secondo  il
quale tale scioglimento deve necessariamente formare oggetto  di  una
pronuncia del giudice. Si osserva al riguardo che siffatto  principio
non solo e' chiaramente recepito nella legge n. 898 del 1970, che non
contempla ipotesi di scioglimento o cessazione degli  effetti  civili
del matrimonio che non siano pronunciate dalle autorita' giudiziaria,
analogamente a quanto e' disposto per le  cause  di  invalidita'  del
matrimonio di qualsiasi natura, ma deve essere ritenuto un  principio
inderogabile di ordine  pubblico  interno.  Si  rileva  altresi'  che
l'annotazione dell'ufficiale dello stato civile di  cessazione  degli
effetti civili del matrimonio a seguito della sentenza  di  rettifica
di sesso non puo' ritenersi legittimata solo  perche'  recepisce  una
astratta previsione normativa, trovando applicazione il principio  di
tassativita' degli atti amministrativi  desumibile  dagli  artt.  453
c.c., 11, comma terzo, 12, comma primo, 69 e 102 del  d.P.R.  n.  396
del 2000. 
    Sotto altro profilo si censura  il  decreto  impugnato  per  aver
ritenuto che lo scioglimento del vincolo derivante dalla rettifica di
sesso non deve essere dichiarato mediante il procedimento  giudiziale
di cui alla legge n. 898 del 1970. Si  osserva  al  riguardo  che  la
modifica dell'art. 3 di detta legge introdotta dalla novella  di  cui
alla legge n. 74 del 1987 non  ha  determinato  alcun  mutamento  nel
regime  giuridico  preesistente,  avendo  indicato  soltanto   l'iter
processuale per il conseguimento  degli  effetti  dello  scioglimento
medesimo, e che d'altro canto, ancor prima dell'innesto della lettera
g) nel citato art. 3, l'art. 4 della legge n. 164 del  1982  rinviava
alla legge n. 898 del 1970. 
    Sotto  ulteriore  profilo  si  rileva  che  l'affermazione  della
decisione impugnata secondo cui il permanere del vincolo tra  coniugi
divenuti dello stesso sesso sino a che non intervenga  una  pronuncia
giudiziale di cessazione degli effetti civili del matrimonio  sarebbe
contrario ai principi di ordine pubblico che regolano l'istituto,  ed
in particolare a quello che fonda il matrimonio sulla  diversita'  di
sesso, finisce con l'equiparare ingiustificatamente la situazione  di
due persone dello stesso sesso che intendono contrarre  matrimonio  a
quella di due soggetti regolarmente coniugati, uno dei  quali  decida
di mutare sesso. Si evidenzia  al  riguardo  che  la  diversita'  tra
orientamento sessuale ed identita' di genere e' stata riconosciuta di
recente anche dalla Corte costituzionale nella sentenza  n.  138  del
2010, come gia' in passato in quella n. 161 del 1985, identificandosi
il transessuale in un  soggetto  che,  pur  presentando  i  caratteri
genetici e fenotipici di un determinato genere, sente di  appartenere
ad un altro genere  del  quale  ha  assunto  l'aspetto  esteriore  ed
adottato i comportamenti. 
    Si osserva altresi'  che  nell'ipotesi  di  pregresso  matrimonio
contratto da soggetto transessuale esiste un rapporto coniugale verso
la stabilita' del quale si appunta un generale favor dell'ordinamento
e che il mancato riconoscimento del  diritto  di  sposarsi  non  puo'
essere equiparato alla soppressione di  uno  status  gia'  acquisito,
essendo in tale ipotesi i coniugi gia' titolari di quel complesso  di
diritti e doveri che l'ordinamento riserva loro appunto in ragione di
tale status. Si aggiunge che nell'ipotesi di scioglimento  automatico
il coniuge che  non  ha  rettificato  il  proprio  sesso  non  ha  la
possibilita' di esprimere alcuna opzione  all'interno  di  una  sfera
giuridica  tendenzialmente   caratterizzata   dalla   non   ingerenza
dell'autorita' statale ed e' privato di un diritto fondamentale  gia'
acquisito. 
    Sono  infine  prospettate  in  via  subordinata   due   eccezioni
d'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 della legge  n.  164  del
1982: 
        la prima con riferimento agli artt. 3, 24, 111  e  117  della
Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 14 della CEDU  e  20  e  21
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nella parte
in cui la norma non prevede che lo scioglimento o la cessazione degli
effetti civili del matrimonio debbano essere pronunciati anche  nella
ipotesi in esame da  sentenza  dell'autorita'  giudiziaria,  violando
cosi' sia gli artt. 24 e 111  della  Costituzione  sotto  il  profilo
della negazione del diritto di difesa e del giusto processo, sia  gli
artt. 3 Cost. e 20 della Carta dei diritti  fondamentali  dell'Unione
europea sotto il profilo  della  ingiustificata  discriminazione  dei
coniugi divenuti dello stesso sesso rispetto alle altre tipologie  di
relazioni  coniugali,  sia  il  principio  di   ragionevolezza,   non
ravvisandosi alcuna ragione logica nel ritenere che solo  la  persona
transessuale e il suo coniuge debbano subire una risoluzione  forzosa
del  vincolo  coniugale,  laddove  per  tutte  le  altre  ipotesi  e'
richiesto l'accertamento giudiziario; 
        la  seconda  con  riferimento  agli  artt.  2  e   29   della
Costituzione e 8 e 12 della CEDU, nonche' 7, 9, 20 e 21  della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nella parte in  cui  il
predetto  art.  4  non  prevede  che  lo  scioglimento  debba  essere
dichiarato su istanza di uno dei coniugi dall'autorita'  giudiziaria,
cosi' sottraendo agli stessi coniugi il diritto di autodeterminazione
sia come singoli che nella formazione sociale costituita  dalla  loro
famiglia  legittimamente  fondata  su   un   matrimonio   validamente
contratto,  nonche'  integrando  una   lesione   del   principio   di
uguaglianza, in quanto l'ipotesi dello scioglimento del  vincolo  per
rettificazione di sesso costituirebbe l'unica  situazione  in  cui  i
coniugi sarebbero privati della tutela giudiziale, dovendo subire una
risoluzione forzosa del vincolo coniugale solo per la  condizione  di
transessualismo di uno di loro (con conseguente violazione anche  del
principio di ragionevolezza). 
    Le  questioni  prospettate  a  giudizio  delle  ricorrenti   sono
rilevanti perche' la necessita' o meno  dell'accertamento  giudiziale
della causa di scioglimento del vincolo  costituisce  il  presupposto
per la valutazione di legittimita' o illegittimita'  dell'annotazione
contestata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. All'attenzione di questa Corte viene posta per la prima  volta
la questione, pure non sfuggita  all'attenzione  della  dottrina  fin
dall'entrata in vigore della legge n. 164  del  1982,  degli  effetti
della  pronuncia  di  rettificazione  di  sesso  su   un   matrimonio
preesistente, regolarmente  contratto  dal  soggetto  che  ha  inteso
esercitare il diritto a cambiare identita'  di  genere  in  corso  di
vincolo, nell'ipotesi in cui ne' il medesimo soggetto ne' il  coniuge
abbiano intenzione di sciogliere il rapporto coniugale. 
    L'esigenza di definire esattamente il thema decidendum e' dettata
dalla natura  del  giudizio  introdotto  dalle  ricorrenti  ai  sensi
dell'art. 95 del d.P.R. n.  396  del  2000.  Come  evidenziato  nella
premessa in fatto, la controversia  trae  origine  Ball'  intervenuta
annotazione sui registri degli atti dello stato civile e  degli  atti
di matrimonio, oltre che della doverosa rettificazione del sesso  con
riferimento ad A.B. anche della «cessazione degli effetti civili» del
matrimonio  contratto  dalle  ricorrenti,  pur  in  mancanza  di  una
pronuncia giudiziale  espressa  sul  punto.  La  domanda  rivolta  al
Tribunale  ha  avuto  come  oggetto   immediato   la   rettificazione
dell'annotazione nella parte relativa alla cessazione  degli  effetti
civili del matrimonio  contratto  dalle  ricorrenti,  in  quanto  non
preceduta da un accertamento giudiziale. 
    Ritiene, tuttavia, questa Corte che non possa essere accertato il
corretto   esercizio    della    funzione    amministrativa    svolta
dall'ufficiale dello stato civile, peraltro in ossequio  ad  espresse
direttive  del  Ministero   dell'Interno,   se   non   si   chiarisce
preventivamente quale sia l'efficacia della rettificazione del  sesso
di uno dei  coniugi  su  di  un  precedente  matrimonio  regolarmente
celebrato. 
    2. Una rapida disamina della normativa relativa agli  atti  dello
stato civile evidenzia la natura meramente derivata, da una norma  di
legge o da un provvedimento giudiziale, dell'esercizio di tale potere
amministrativo, a contenuto dichiarativo/esecutivo.  In  particolare,
l'art. 5, primo  coma,  lettera  a),  del  d.P.R.  n.  396  del  2000
stabilisce che l'ufficiale, nel dare attuazione ai principi  generali
sul servizio dello stato civile, ha il compito di «aggiornare»  tutti
gli atti concernenti lo stato civile, essendogli  vietato  (art.  11,
comma terzo) di enunciare dichiarazioni  ed  indicazioni  diverse  da
quelle  che  sono  stabilite  o  permesse  per  ciascun  atto.   Tale
precisazione sta ad indicare che sull'atto di nascita o di matrimonio
possono essere eseguite soltanto annotazioni relative ed  inerenti  a
quell'atto (come l'eventuale sopravvenuto  scioglimento  del  vincolo
del matrimonio), ma non che non si  debba  aggiornarne  il  contenuto
certatorio quando la condizione preesistente si  sia  modificata  nel
rispetto delle prescrizioni di legge. In linea  generale,  gli  artt.
453 cod. civ. e 102 del citato d.P.R. n. 396  del  2000  stabiliscono
che le annotazioni possono  essere  disposte  per  legge  o  ordinate
dall'autorita' giudiziaria. E' necessario "in ogni caso"  (art.  102,
terzo comma) che venga indicato l'atto o il provvedimento in base  al
quale esse sono eseguite. 
    In tale assetto normativo  di  riferimento  appare  evidente  che
nella specie l'ufficiale di stato  civile,  sulla  base  dell'art.  4
della legge n.  164  del  1982,  ha  provveduto,  richiamando  l'atto
presupposto  (la  pronuncia  di  rettificazione  di  attribuzione  di
sesso), all'annotazione contestata, assunta come  effetto  automatico
ed   ineludibile   dell'accertamento   giudiziale   compiuto.    Piu'
precisamente  ha  ritenuto  che   l'ordine   di   annotazione   della
rettificazione  di  attribuzione  di  sesso  determinasse  l'obbligo,
sostenuto dal citato art. 4, di aggiornare anche  il  registro  degli
atti di matrimonio relativo alle posizioni delle parti ricorrenti. 
    Sulla base di questa lettura delle norme che regolano l'esercizio
del diritto alla rettificazione del sesso nel nostro  ordinamento  si
giustifica l'esercizio del potere da parte dell'ufficiale dello stato
civile anche alla luce dell'art. 69  del  d.P.R.  n.  396  del  2000.
Questa norma, che al primo comma regola specificamente  gli  atti  di
matrimonio, stabilisce alla lett. d) che in essi  si  fa  annotazione
delle "sentenze" di scioglimento o di cessazione degli effetti civili
del matrimonio. Non ritiene questa Corte che dalla enunciazione sopra
indicata   possa   conseguire   la   radicale   carenza   di   potere
dell'ufficiale  di  stato  civile  nell'esecuzione   dell'annotazione
contestata, dovendo la norma  indicata  essere  interpretata  in  via
sistematica, coordinandola con le cause di scioglimento del vincolo e
di cessazione degli effetti  civili  del  matrimonio  previste  dalla
legge n. 898 del 1970 e, come nella specie, da leggi speciali  (legge
n. 164 del 1982). Nella specie l'ufficiale di stato civile ha  quindi
adempiuto ad un obbligo proveniente da una norma di  legge,  peraltro
sorto sulla base di  un  titolo  giudiziale  che  ne  costituisce  il
presupposto. Il d.P.R. n. 396 del 2000 rappresenta invero  un  corpus
normativo "servente", volto esclusivamente a disciplinare gli atti  e
i registri dello stato civile e le funzioni  dei  pubblici  ufficiali
competenti. 
    Cosi' delimitata la finalita' regolatrice del citato d.P.R., deve
escludersi che possano desumersi dalle singole disposizioni  in  esso
contenute i modelli matrimoniali e familiari esistenti  o  consentiti
nel nostro ordinamento, i quali devono essere correttamente enucleati
dal complesso dei principi costituzionali che unitamente alle  regole
di  diritto   positivo   li   disciplinano.   Esclusa   pertanto   la
configurazione dell'attivita' certatoria del pubblico ufficiale  come
eseguita in condizione di carenza di  potere,  la  valutazione  della
legittimita'   dell'esercizio   della   funzione    esercitata    con
l'annotazione della cessazione degli effetti  civili  del  matrimonio
legittimamente  contratto  dalle  ricorrenti  deriva  necessariamente
dall'esame delle norme che regolano gli effetti della  rettificazione
di attribuzione di sesso sui vincoli matrimoniali preesistenti. 
    3. La legge n. 164 del 1982, nel disciplinare  la  materia  della
rettificazione di attribuzione  di  sesso  prevede(va)  espressamente
all'art. 4, nella formulazione in vigore fino al 4 ottobre 2011,  che
la sentenza di rettificazione di  attribuzione  di  sesso,  priva  di
effetto retroattivo, provochi lo scioglimento  del  matrimonio  o  la
cessazione degli effetti civili  conseguenti  alla  trascrizione  del
matrimonio celebrato con rito religioso. 
    Fino all'entrata in vigore della legge n. 74 del 1987 gli effetti
della sentenza di rettificazione  di  attribuzione  di  sesso  su  un
precedente vincolo matrimoniale erano disciplinati esclusivamente dal
citato art. 4. Si  riteneva,  pressoche'  unanimemente,  che  con  il
passaggio in giudicato  di  tale  sentenza  si  determinasse  in  via
automatica e senza la  necessita'  di  una  dichiarazione  giudiziale
apposita lo scioglimento o la cessazione  degli  effetti  civili  del
matrimonio  preesistente.  L'attenzione  degli  interpreti,  pur  non
avendo mai trascurato questo peculiare profilo  degli  effetti  della
sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, era  concentrata
sul diritto del soggetto al quale era stato riconosciuto  il  diritto
di mutare la propria identita'  di  genere  di  legarsi  e  contrarre
matrimonio con un partner di sesso diverso da  quello  scaturito  dal
percorso  di   autodeterminazione   personale   e   dalla   pronuncia
giudiziale. Anche le indicazioni  provenienti  dalle  sentenze  della
Corte Europea dei diritti dell'uomo (I. contro Regno Unito ricorso n.
25680/94; Goodwin contro Regno  Unito,  ricorso  n.  28957/95;  Grant
contro Regno Unito  ricorso  n.32570/2003)  erano  tutte  rivolte  in
quegli anni a consentire al soggetto che aveva mutato sesso il  pieno
godimento del diritto alla  vita  privata  e  familiare  mediante  la
possibilita' di contrarre matrimonio  ai  sensi  dell'art.  12  della
CEDU, o il godimento di diritti sociali conseguenti al genere  mutato
(trattamento pensionistico a partire  dai  60  invece  che  65  anni,
derivante dall'attribuzione del genere femminile, caso Grant). 
    Come significativamente riconosciuto nella sentenza  della  Corte
costituzionale n. 161 del 1985, con la  legge  n.  164  del  1982  il
legislatore italiano ha accolto un  concetto  di  identita'  sessuale
nuovo e diverso rispetto al passato, "nel senso che ai  fini  di  una
tale identificazione viene conferito rilievo non piu'  esclusivamente
agli organi  genitali  esterni,  quali  accertati  al  momento  della
nascita ma anche ad elementi  di  carattere  psicologico  e  sociale.
Presupposto della normativa impugnata e', dunque, la  concezione  del
sesso come  dato  complesso  della  personalita'  determinato  da  un
insieme di fattori, dei  quali  deve  essere  agevolato  o  ricercato
l'equilibrio". Il cambiamento d'identita' di  genere  costituisce  il
completamento di un processo teso verso la coincidenza  tra  "soma  e
psiche". L'identificazione cromosomica  del  sesso  non  e'  piu'  un
fattore condizionante in modo  ineluttabile  l'identita'  di  genere,
dovendosi  riconoscere  alla  persona  umana  il  riconoscimento  del
diritto, alle condizioni previste  dalle  varie  leggi  che  si  sono
susseguite nei paesi europei, a rettificare l'attribuzione originaria
di sesso, coerentemente con il proprio equilibrio psico fisico. 
    L'attenzione del legislatore e  della  Corte  costituzionale,  in
consonanza con gli orientamenti sopra indicati della CEDU,  ancorche'
successivi e riferiti a Stati aventi strumenti legislativi diversi  o
carenti, e' stata, in questa prima fase di applicazione  delle  leggi
con le quali e' stato riconosciuto  il  diritto  alla  rettificazione
dell'attribuzione di sesso, prevalentemente rivolta ad includere  nel
catalogo aperto  dell'autodeterminazione  anche  questo  peculiare  e
spesso sofferto percorso personale e di assicurare, per il futuro, la
possibilita' di compiere scelte come il matrimonio  coerenti  con  la
nuova identita' sessuale e di non essere discriminati nella fruizione
dei diritti sociali. Vi e' stata  alla  base  la  diffusa  percezione
della necessita' di una netta soluzione di continuita' con il passato
del soggetto, in quanto caratterizzato da una  condizione  di  genere
non accettata  e,  partendo  da  questa  premessa,  oltre  che  dalla
volonta' di non aprire alcun varco alla possibilita'  di  riconoscere
matrimoni tra persone dello stesso sesso, si sono  introdotte  norme,
variamente  configurate,  rivolte  alla  risoluzione   dei   rapporti
coniugali precedenti. La tecnica normativa, sulla quale  si  tornera'
nel prosieguo, e' stata quella di richiedere come condizione  per  il
riconoscimento del diritto alla rettificazione  dell'attribuzione  di
sesso lo scioglimento del vincolo precedente o di far conseguire alla
pronuncia giudiziale il medesimo effetto. 
    Come   precisato   nella   richiamata   sentenza   della    Corte
costituzionale n. 161 del 1985,  nella  legge  n.  164  del  1982  lo
scioglimento o la cessazione  degli  effetti  civili  del  matrimonio
conseguono alla sentenza che  abbia  disposto  la  rettificazione  di
attribuzione di sesso.  Deve,  pertanto,  escludersi  che  nell'ampio
spettro dei diritti e delle liberta' riconducibili alla nuova  legge,
che secondo la stessa Corte costituzionale si colloca "nell'alveo  di
una civilta' giuridica in evoluzione, sempre piu' attenta ai  valori,
di liberta' e dignita', della persona umana,  che  ricerca  e  tutela
anche nelle situazioni minoritarie ed  anomale",  sia  ricompresa  la
scelta di conservare il preesistente vincolo matrimoniale, in quanto,
proprio  per  il   rilievo   costitutivo   dell'identita'   personale
attribuito dalla legge (e  dalla  sentenza  n.  161  del  1985)  alla
rettificazione  dell'attribuzione  di'  sesso,  dopo   la   pronuncia
giudiziale tale vincolo legherebbe una coppia dello stesso sesso. 
    Il bilanciamento d'interessi di rango costituzionale operato  dal
legislatore del 1982 e dalla Corte costituzionale  risulta  privo  di
ambiguita'. Da un lato esiste il diritto al riconoscimento della vera
identita' del genere del soggetto che desidera rettificare  il  sesso
che  gli  e'  stato  attribuito  alla  nascita,  dall'altro   vi   e'
l'interesse statuale a non modificare i modelli familiari, nonostante
il potenziale sacrificio del diritto alla vita  privata  e  familiare
che tale bilanciamento determina, non  ritenendosi  coerente  con  il
sistema di valori fondanti l'ordinamento costituzionale e di  diritto
interno (considerati al momento di entrata  in  vigore  della  legge)
l'estensione del diritto  all'autodeterminazione  fino  al  punto  da
consentire la scelta sulla  conservazione  del  vincolo  matrimoniale
precedentemente contratto secundum legem. 
    4.  Cosi'  delineati  i  contenuti   dell'opzione   operata   dal
legislatore del 1982, deve concludersi per l'operativita'  ope  legis
della causa  di  scioglimento  del  vincolo,  una  volta  passata  in
giudicato la pronuncia di rettificazione di  attribuzione  di  sesso.
Solo mediante questa  interpretazione  della  norma  si  perviene  al
rispetto della ratio legislativa rivolta ad escludere la facolta'  di
scelta  sulla  conservazione   del   vincolo.   Attesa   l'univocita'
dell'interpretazione della norma anche alla luce della sentenza della
Corte cost. n. 161  del  1985  ed  in  linea  con  le  opzioni  delle
legislazioni europee sul concreto atteggiarsi del bilanciamento degli
interessi in  gioco,  risulta  agevole  l'indagine  sulla  questione,
sollevata dalle ricorrenti,  relativa  alla  esclusivita'  di  questa
lettura della norma anche dopo l'entrata in vigore della legge n.  74
del 1987. 
    L'art. 3 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall'art. 7
della legge n. 74  del  1987,  ha  aggiunto  alle  altre  ipotesi  di
scioglimento o di cessazione  degli  effetti  civili  del  matrimonio
quella  relativa  al  passaggio  in  giudicato  della   sentenza   di
rettificazione di attribuzione di sesso. Poiche' la norma si apre con
la locuzione «lo scioglimento o la cessazione  degli  effetti  civili
del matrimonio puo' essere "domandato' da uno dei  coniugi»,  secondo
la  prospettazione  delle  ricorrenti  deve  escludersi  quanto  meno
dall'entrata in vigore della legge n. 74 del 1987 che detta pronuncia
determini ope legis e senza bisogno di una statuizione giudiziale  ad
hoc  lo  scioglimento  o  la  cessazione  degli  effetti  civili  del
matrimonio, tanto piu' che anche l'art. 4 della legge n. 164 del 1982
sancisce l'applicabilita' delle disposizioni della legge n.  898  del
1970 e successive modificazioni. Si osserva inoltre  da  parte  delle
stesse ricorrenti,  del  tutto  correttamente,  che  tutte  le  altre
ipotesi  descritte  dal  citato  art.  3  richiedono  una   pronuncia
giudiziale. 
    Come agevolmente riscontrabile dall'esame della novella  e  dalla
lettura della relazione illustrativa, con la legge n. 74 del 1987 non
e' stata operata alcuna innovazione rispetto al sistema  preesistente
in ordine ai modelli familiari, non essendo stata questa la finalita'
dell'intervento legislativo, ne' si  e'  proceduto  ad  una  radicale
modifica dei casi di scioglimento del matrimonio. La  novella  appare
finalizzata  alla   razionalizzazione   del   sistema   preesistente,
caratterizzato da un regime giuridico ormai datato  relativamente  al
diritto transitorio e all'instaurazione  di  un  modello  processuale
piu'  spedito  ed   efficiente.   All'interno   di   quest'opera   di
ammodernamento delle norme sostanziali e di innovazione  delle  forme
processuali e' stata aggiunta tra  le  ipotesi  di  scioglimento  del
matrimonio quella di  cui  all'art.  3,  quarto  comma,  lettera  g),
riguardante specificamente il passaggio in giudicato  della  sentenza
di   rettificazione   di   attribuzione   di   sesso.    Non    puo',
conseguentemente, farsi discendere da un intervento normativo  avente
una finalita' inequivocamente cosi' circoscritta il risultato di  una
modificazione,  ancorche'  in  termini  numericamente  limitati,  dei
modelli matrimoniali preesistenti, come si verificherebbe accogliendo
l'opzione   interpretativa   indicata   dalle    parti    ricorrenti.
L'introduzione  della  lettera  g)  costituisce  invece   la   logica
conseguenza del riferimento all'applicabilita' della legge n. 898 del
1970, gia' contenuta nell'art. 4 della legge n. 164 del 1982. Poiche'
la legge n. 74 del 1987 ha radicalmente mutato il modello processuale
relativo al procedimento divorzile, e' stato ritenuto dal legislatore
necessario estendere l'applicazione del rito camerale  anche  alle  .
controversie consequenziali (relative ai figli minori o patrimoniali)
allo  scioglimento  automatico  del  vincolo  nell'ambito  del  nuovo
procedimento. 
    Si  deve,  conseguentemente,  ritenere  che  questa  sia  l'unica
interpretazione logicamente e sistematicamente desumibile dal sistema
dei modelli matrimoniali codificato nel nostro  ordinamento  e  dalla
complessiva ratio della legge n. 164 del 1982,  interamente  ispirata
dall'esigenza  di  favorire  la  corrispondenza  tra  soma  e  psiche
nell'individuazione della identita' di  genere  senza  modificare  il
preesistente  regime  giuridico  dei  rapporti  coniugali.   Pertanto
l'inclusione della lett. g) nell' art. 3 della legge n. 898 del  1970
non comporta che lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili
del matrimonio per effetto della rettificazione  di  attribuzione  di
sesso debbano  essere  inevitabilmente  contenuti  in  una  pronuncia
giudiziale, in  quanto  la  norma  che  ha  introdotto  questa  causa
solutoria  (art  4  legge  n.  164  del   1982)   ne   ha   stabilito
l'operativita' automatica in conseguenza soltanto  del  passaggio  in
giudicato (indicato espressamente nell'art. 3, quarto comma,  lettera
g) della legge n.  898  del  1970,  ma  da  ritenersi  implicitamente
desumibile gia' dalla formulazione del citato art. 4) della  sentenza
di rettificazione di attribuzione di sesso. 
    5. Esclusa, pertanto,  la  necessita'  che  lo  scioglimento  del
vincolo debba conseguire ad una domanda di  parte,  occorre  tuttavia
verificare se l'interpretazione coordinata dell'art. 4 della legge n.
164 del 1982 e dell'art. 3 legge n. 898 del 1970 non conduca comunque
all'inevitabilita' di una pronuncia giudiziale, anche in  assenza  di
domanda. 
    E' stata adombrata da qualche interprete ed ha  trovato  parziale
riscontro nella giurisprudenza di merito l'ipotesi di  una  pronuncia
officiosa di scioglimento  o  cessazione  degli  effetti  civili  del
matrimonio, da adottarsi unitamente alla pronuncia di  rettificazione
di attribuzione di  sesso.  Con  questa  soluzione,  si  afferma,  si
salvaguarderebbe   l'operativita'   automatica   della    causa    di
scioglimento,  ma  anche  il  principio  della  riserva  assoluta  di
giurisdizione che governa il regime giuridico degli status. 
    La soluzione presta il fianco a radicali critiche. In primo luogo
essa non appare rispettosa della lettura coordinata dell'art. 4 della
legge n. 164 del 1982 e dell'art. 3, quarto  comma,  lett.  g)  della
legge  n.  898  del  1970,   risultando   l'operativita'   automatica
dell'effetto solutorio condizionata al passaggio in  giudicato  della
sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso e non  alla  mera
pronuncia. 
    Peraltro, al di la' dell'ostacolo formale  sopra  illustrato,  si
ravvisa una ragione sostanziale ostativa all'accoglimento  di  questa
opzione  interpretativa   ben   piu'   significativa.   Lasciare   la
declaratoria di scioglimento o cessazione degli  effetti  civili  del
matrimonio all'iniziativa officiosa del tribunale determina l'effetto
di  ancorare  l'effetto  solutorio  esclusivamente  alla  scelta  del
tribunale, creando un'ingiustificata disparita' di trattamento tra le
coppie coniugate che  versano  in  questa  peculiare  condizione,  in
quanto lo scioglimento del vincolo si verificherebbe secundum eventum
litis,  ovvero  subordinatamente   all'esercizio   di   tale   potere
ufficioso. Si tratta, all'evidenza, di una soluzione irragionevole  e
discriminatoria del tutto inidonea a fornire una risposta adeguata al
rilievo costituzionale degli interessi in gioco. 
    Ne' l'iniziativa giudiziale puo' essere  attribuita  al  pubblico
ministero, al quale deve  essere  notificato,  a  pena  di  nullita',
l'atto introduttivo del  giudizio  di  rettificazione  di  sesso,  in
quanto tale organo ha il  limitato  potere  d'intervenire,  ai  sensi
degli artt. 70 e 72 cod. proc. civ., ma non  di  promuovere  l'azione
relativa allo scioglimento del vincolo. La natura personalissima  dei
diritti coinvolti in tali giudizi incide, infatti, sulla natura e  il
contenuto della partecipazione del pubblico ministero,  il  quale  ai
sensi dell'art. 5, quinto comma, legge n. 898 del 1970  nel  giudizio
di  divorzio  puo'  esclusivamente  proporre  impugnazione   (e   non
esercitare autonomamente azione) avverso le statuizioni relative agli
interessi  patrimoniali  dei  figli  minori  o  legalmente  incapaci,
essendo esclusa qualsiasi sua iniziativa  officiosa  con  riferimento
alle specifiche vicende del rapporto coniugale. 
    Alla  medesima  conclusione  si  giunge  alla  luce  dell'attuale
disciplina del procedimento  di  rettificazione  di  attribuzione  di
sesso introdotta dal d.lgs. n. 150 del 2011. L'art. 31, infatti, come
l'abrogato  art.  2  della  legge  n.  164  del  1982,   prevede   la
partecipazione del pubblico ministero come mero interveniente,  oltre
che la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio  al  coniuge
ed ai figli. Peraltro la norma sembra rafforzare l'effetto  solutorio
sul vincolo  matrimoniale  preesistente  laddove  stabilisce  che  la
sentenza di rettificazione di attribuzione di  sesso  "determina"  (e
non "provoca") lo scioglimento o la cessazione degli  effetti  civili
del matrimonio,  sottolineando  l'automatismo  e  l'operativita'  ope
legis dell'effetto predetto. 
    In conclusione, come sottolineato dalla prevalente  dottrina,  la
scelta del legislatore, pienamente  confermata  anche  dalla  novella
introdotta con l'art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011 (catione temporis
non applicabile alla  fattispecie  dedotta  nel  presente  giudizio),
risulta univocamente quella di aver  introdotto  una  fattispecie  di
divorzio "imposto" ex lege che non richiede, al fine  di  produrre  i
suoi effetti, una pronuncia giudiziale ad hoc,  salva  la  necessita'
della tutela giurisdizionale limitatamente alle decisioni relative ai
figli minori. 
    6.  Tale  soluzione  obbligata  pone  l'interrogativo  della  sua
compatibilita'  con  il  sistema  costituzionale,   integrato   dalla
Convenzione Europea dei diritti  dell'uomo  come  interpretata  dalla
Corte  di  Strasburgo   (da   ritenersi   operante   come   parametro
interposto),   di   riconoscimento   e   tutela   del   diritto    ad
autodeterminarsi nelle scelte relative  all'identita'  personale,  di
cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo;  del  diritto
alla conservazione della preesistente dimensione relazionale,  quando
essa assuma i caratteri della stabilita'  e  continuita'  propri  del
vincolo coniugale;  del  diritto  a  non  essere  ingiustificatamente
discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate,  alle  quali
e' riconosciuta la possibilita' di scelta in ordine al divorzio;  del
diritto dell'altro coniuge di scegliere se  continuare  la  relazione
coniugale. Il quesito che  s'impone,  sotto  i  profili  considerati,
consiste nella valutazione dell'adeguatezza  del  sacrificio  imposto
all'esercizio di tali diritti dall'imperativita'  dello  scioglimento
del vincolo per entrambi i coniugi. 
    Ritiene  questa  Corte  che,  limitatamente  agli  aspetti  sopra
delineati, vi siano fondati dubbi di legittimita'  costituzionale  in
ordine alla soluzione normativa adottata dal legislatore italiano del
divorzio "imposto" alla coppia coniugata che sia stata "attraversata"
dalla rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti. 
    La  rilevanza  della   questione   deriva   dalle   gia'   svolte
considerazioni sul diretto ed esclusivo  nesso  eziologico  esistente
tra la qualificazione giuridica  degli  effetti  della  pronuncia  di
rettificazione  del  sesso  sul  rapporto  coniugale  in  atto  e  la
soluzione del quesito riguardante il corretto  esercizio  del  potere
dell'ufficiale dello stato civile nella annotazione della  cessazione
degli effetti civili del matrimonio, in mancanza  di  una  preventiva
statuizione  giudiziale  ad  hoc  che  contenga  anche  l'ordine   di
annotazione.  Sulla   base   dell'attuale   assetto   normativa,   in
conclusione,  il  ricorso  dovrebbe  essere  rigettato.  Nell'ipotesi
contraria la conseguenza sarebbe la cassazione del decreto impugnato.
Risulta,    pertanto,    evidente    l'incidenza     del     sospetto
d'incostituzionalita' sotto  i  profili  e  nei  termini  di  seguito
illustrati. 
    7. La norma della cui legittimita' costituzionale si  dubita  e',
in primo luogo, l'art. 4 della legge n.  164  del  1982,  applicabile
ratione temporis ed abrogata dall'art. 36 del d.lgs n. 150 del  2011,
nella parte in cui stabilisce che la sentenza  di  rettificazione  di
attribuzione di sesso provoca lo scioglimento  del  matrimonio  o  la
cessazione degli effetti  civili  conseguenti  alla  trascrizione  di
quello celebrato con rito religioso, cosi'  introducendo  nel  nostro
ordinamento l'unica ipotesi di divorzio "imposto" ex lege.  Peraltro,
l'art. 31  del  d.lgs.  n.  150  del  2011,  che  ha  sostanzialmente
sostituito il previgente art.  4,  contiene  la  medesima  previsione
utilizzando il predicato verbale "determina" al posto  di  "provoca",
con   effetto   rafforzativo   dell'operativita'   automatica   dello
scioglimento del vincolo come  conseguenza  della  rettificazione  di
attribuzione di sesso. 
    In  linea  generale  si  ritiene  che  l'esercizio  del   diritto
individuale al riconoscimento della propria  effettiva  identita'  di
genere rispetto a quella determinata dal corredo cromosomico produca,
alla luce del regime giuridico sopra illustrato, una compressione del
tutto sproporzionata dei diritti  della  persona  legati  alla  sfera
relazionale intersoggettiva, mediante un'ingerenza statuale diretta e
non altrimenti eliminabile, neanche limitata al soggetto destinatario
della pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso, ma estesa
anche al coniuge, ancor  piu'  ingiustificatamente  colpito  da  tale
interferenza. 
    I    parametri    costituzionali    coinvolti     dall'inadeguato
bilanciamento d'interessi costituzionalmente  rilevanti  operato  dal
legislatore  sono  molteplici.  In  primo  luogo  appare  dubbia   la
compatibilita' del cd, divorzio "imposto" con gli artt. 2 e 29  della
Costituzione, nonche' con i  parametri  interposti  costituiti  dagli
art. 8 e 12 della CEDU. Va al riguardo  osservato  che,  pur  essendo
l'ordinamento italiano tuttora caratterizzato dall'assenza  di  norme
che attribuiscano riconoscimento giuridico alle cd. famiglie di fatto
ed alle coppie formate da persone  dello  stesso  sesso,  il  rilievo
costituzionale di tali unioni, anche  con  riferimento  ai  parametri
interposti costituiti  dalla  CEDU,  e'  stato  sancito  dalla  Corte
costituzionale (sent. n. 138 del 2010)  e  dalla  giurisprudenza  di'
legittimita' (sent. n. 4184 del 2012), oltre che dalla Corte  Europea
dei diritti dell'uomo (sentenza 24 giugno 2010 caso Schalk  e  Kopf).
Alla luce dei nuovi principi stabiliti in  queste  pronunce  si  puo'
affermare: 
        la scelta di  estendere  il  modello  matrimoniale  anche  ad
unioni diverse da quella  eterosessuale  e'  rimessa  al  legislatore
ordinario. Non sussiste un vincolo costituzionale (art. 29  Cost.)  o
proveniente  dall'art.  12  della  CEDU   in   ordine   all'esclusiva
applicabilita' del modello  matrimoniale  alle  unioni  eterosessuali
(Corte cost. n. 138 del 2010; CEDU caso Schalk e Kops); 
        l'art. 12, da leggersi anche  alla  luce  dell'art.  8  della
Carta  dei  diritti  dell'Unione  Europea,   tutela   anche   modelli
matrimoniali  diversi  da  quello   eterosessuale,   lasciando   alla
legislazione degli  Stati  e  al  loro  apprezzamento  la  scelta  di
estendere o limitare le tipologie di unioni che possono legarsi anche
mediante il  vincolo  matrimoniale  vero  e  proprio  (CEDU  sentenza
24/6/2010 caso Schalk e Kopf); 
        il carattere dell'eterosessualita' non costituisce  piu',  di
conseguenza, un canone di ordine pubblico ne'  interno  (Corte  cost.
138 del 2010; Cass. 4184 del 2012) ne' internazionale (CEDU  sentenza
Schalk e Kopf); 
        le unioni che siano fondate su  una  stabile  e  continuativa
affectio,  ancorche'  non  riconducibili  al  modello   matrimoniale,
ricevono la copertura costituzionale diretta dell'art. 2 (Corte cost.
138 del 2010), nonche' dell'art. 8 della CEDU (Caso Schalk  e  Kopf).
Tale riconoscimento non si limita alla liberta' di vivere la  propria
condizione di coppia ovvero di non nascondere le  scelte  riguardanti
la sfera emotiva individuale, ma si estende al  riconoscimento  della
situazione oggettiva della  stabile  convivenza  e  dei  diritti  che
conseguono alla creazione e al consolidamento  di  questa  formazione
sociale    costituzionalmente    e    convenzionalmente    garantita.
Nell'endiadi «diritto  alla  vita  privata  e  familiare»,  contenuta
nell'art. 8 della CEDU,  l'attenzione,  dopo  il  consolidamento  dei
diritti individuali, si e' rivolta alle conseguenze relazionali delle
scelte personali e private, ovvero  alla  dimensione  «familiare»  di
tali  scelte,  nell'accezione   che   a   tale   attributo   da'   la
giurisprudenza  della  CEDU,  sostanzialmente  coincidente   con   il
contenuto delle «formazioni sociali» cui si riferisce l'art. 2  della
Costituzione. 
    In  questo  quadro  profondamente   rinnovato   e   sempre   piu'
frequentemente arricchito dalla felice «contaminazione»  delle  fonti
costituzionali europee, convenzionali ed internazionali,  in  cui  si
collocano  i  diritti  delle  persone,  deve   essere   valutata   la
compatibilita' costituzionale dell'art. 4 della legge n. 164 del 1982
rispetto ai parametri costituiti dagli artt. 2 e 29  Cost.,  e  nella
loro qualita' di norme interposte ex artt. 10,  primo  comma,  e  117
Cost., degli artt. 8 e 12 della CEDU, non  omettendo  di  considerare
che la stessa Corte costituzionale nella pronuncia n. 161 del 1985 ha
riconosciuto che questa legge «si colloca nell'alveo di una  civilta'
giuridica in evoluzione». 
    Al riguardo deve  osservarsi  che  lo  scioglimento  del  vincolo
coniugale,  disposto  ex  lege  come  conseguenza  automatica   della
rettificazione dell'attribuzione di sesso,  determina  l'eliminazione
"chirurgica" di una relazione stabile e continuativa che ha dato vita
ad un nucleo  familiare,  costituzionalmente  protetto  dall'art.  29
Cost.  All'interno   dell'affectio   coniugalis,   consacrata   dalla
celebrazione del  matrimonio,  e'  maturata  la  scelta  di  uno  dei
partners   della   rettificazione   di   attribuzione    di    sesso,
verosimilmente,  in  mancanza  dello  scioglimento   volontario   del
vincolo,  condivisa  dall'altro.  La  univoca  previsione   normativa
esclude, in prospettiva futura,  qualsiasi  rilievo  all'esistenza  e
alla stabilita'  di  tali  tipologie  di  relazioni,  ignorandone  il
rilievo primario di formazioni sociali costituzionalmente  garantite,
all'origine, dagli artt. 2 e 29 Cost., in un contesto  costituzionale
nel quale e' ormai largamente  condivisa  l'esigenza  di  riconoscere
alle unioni di fatto, anche  tra  persone  dello  stesso  sesso,  uno
statuto  giuridico  di  diritti  ed  obblighi  che  quanto  meno  "in
specifiche situazioni" (cosi' Corte cost. n. 138 del  2010)  assicuri
un trattamento omogeneo a quello delle coppie coniugate,  proprio  in
virtu'  della  copertura  costituzionale  ad  esse  attribuita  dallo
sviluppo degli orientamenti delle Corti, sopra illustrato. 
    Le  scelte  appartenenti  alla   sfera   emotiva   ed   affettiva
costituiscono  il  fondamento  dell'autodeterminazione.  Esse,  nella
nostra cultura giuridica, si  esplicano  al  di  fuori  di  qualsiasi
ingerenza statuale. Sul canone indefettibile del consenso e'  fondato
in via esclusiva l'istituto del matrimonio,  dalla  costituzione  del
vincolo al suo scioglimento. Si tratta dell'esercizio di  un  diritto
personalissimo, delimitato da condizioni minime di accesso, nel quale
si manifesta una tra le piu' rilevanti scelte della  vita.  L'opzione
normativa del divorzio "imposto"  ex  lege  al  soggetto  che  si  e'
determinato a rettificare il proprio sesso e all'altro coniuge incide
sul contenuto minimo ed ineludibile del predetto diritto e mina  alla
radice  lo  stesso   diritto   all'identita'   di   genere   che   la
rettificazione  di  sesso  intende  riconoscere,  in  quanto  produce
l'esclusione  di  un'altra  dimensione  di   pari   rilievo,   quella
relazionale,  all'interno  della  quale  la  scelta   operata   trova
generalmente la  sua  piu'  rilevante  manifestazione.  La  questione
relativa alla compatibilita' costituzionale di  un  regime  giuridico
che  da  un   lato   riconosce   il   diritto   alla   rettificazione
dell'attribuzione di sesso e dall'altro determina il mutamento  della
condizione giuridica relazionale preesistente ha assunto  un  rilievo
primario  anche  in  altri   paesi   europei,   rendendo   necessario
l'intervento delle Corti costituzionali e, di  recente,  della  CEDU.
Nel 2009, infatti, analogo quesito e'  stato  sottoposto  alla  Corte
costituzionale tedesca. In questo Stato la legislazione  relativa  al
diritto alla rettificazione dell'attribuzione di sesso  (salve  altre
differenziazioni di regime non rilevanti in questa sede)  si  fondava
sulla preventiva necessita' di  sciogliere  il  vincolo  matrimoniale
preesistente come condizione di ammissibilita' dell'azione. In comune
con la legislazione italiana vi era dunque  la  necessita'  di  porre
fine al matrimonio preesistente,  come  "prezzo"  da  pagare  per  il
riconoscimento del diritto  all'effettiva  identita'  di  genere.  La
Corte costituzionale tedesca (pronuncia  BVerfG,  1  BvL  10/051)  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale della norma in  questione,
ritenendo che la richiesta di estinguere il matrimonio sia produttiva
di una limitazione sostanziale del diritto al  riconoscimento  legale
della propria identita' personale, in quanto impone al richiedente di
scegliere tra due diritti ugualmente protetti dalla Costituzione.  Ha
affermato la Corte tedesca  che  le  caratteristiche  essenziali  del
matrimonio sono l'aspettativa di una durevole comunita' di vita e  la
volontarieta' dello scioglimento del vincolo e  che  su  di  esse  lo
Stato non puo' interferire. La decisione non incide in alcun modo sul
contenuto tradizionale del matrimonio ne' determina l'apertura  verso
l'instaurazione di matrimoni con  persone  dello  stesso  sesso,  non
consentiti dalla legge tedesca. Pur essendo possibile una limitazione
dei diritti fondamentali della persona, ove giustificata da  un  fine
legittimo e realizzata con un mezzo proporzionato  all'obiettivo,  il
riconoscimento  della  possibilita'   di   proseguire   il   rapporto
matrimoniale, nell'ipotesi in cui uno dei coniugi abbia mutato sesso,
lascia inalterata l'unione  nella  sua  configurazione  tradizionale,
mentre  la  soluzione  contraria  mina   alla   radice   il   diritto
all'identita' personale del richiedente e il  diritto  al  matrimonio
dell'altro coniuge. Con questa pronuncia, peraltro,  viene  colta  la
profonda differenza tra  le  nozioni  di  "identita'  di  genere"  ed
"orientamento sessuale" (ampiamente sottolineata anche nella sentenza
della Corte cost. n. 138 del 2010) ed e' affermato che  la  rimozione
dello scioglimento  coattivo  del  vincolo  coniugale  non  determina
l'introduzione indiretta della possibilita' di  contrarre  matrimonio
tra persone dello stesso sesso, essendo il  percorso  psicologico  e,
frequentemente,  medico  chirurgico   legato   alla   condizione   di
transessualita'  ontologicamente  diverso  da  quello  compiuto   dal
soggetto  che  si  determina  verso  l'uno  o  l'altro   orientamento
sessuale. 
    In precedenza, anche la Corte costituzionale  austriaca,  con  la
pronuncia   n.   17849   dell'8   giugno   2006,   aveva   dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale   di   una   norma   che   stabiliva
l'intrascrivibilita' della rettificazione di sesso in mancanza  dello
scioglimento del vincolo  pregresso.  La  norma  censurata  e'  stata
ritenuta in contrasto con il diritto dell'individuo al rispetto della
sua vita  privata,  cosi'  come  sancito  dall'art.  8  CEDU.  In  un
ordinamento come quello austriaco, che esclude il  riconoscimento  di
matrimoni  contratti  tra  persone  dello  stesso  sesso,  la   Corte
costituzionale ha  ritenuto  che  la  peculiarita'  della  condizione
personale di chi chiede la rettificazione di attribuzione di sesso  e
il diritto alla continuazione di un legame duraturo e stabile come il
matrimonio non possano  essere  sacrificati  senza  il  consenso  dei
coniugi. 
    Deve, pertanto, affermarsi che l'ingerenza  statuale  situata  "a
monte" o a "valle" del procedimento di rettificazione di attribuzione
di  sesso,  consistente  nell'obbligo   preventivo   o   nell'effetto
solutorio successivo sul vincolo coniugale, determina la  lesione  di
un diritto che ha la stessa natura,  ampiezza  e  centralita',  nello
sviluppo   della   personalita'   dell'essere   umano,   di    quello
all'identita' di  genere.  Ne  risulta  minato  alla  radice  diritto
all'autodeterminazione  del  soggetto  che  intende  procedere   alla
rettificazione di attribuzione di sesso, conseguendo a  tale  opzione
la eliminazione per  il  futuro  del  diritto  alla  vita  familiare,
realizzato mediante la scelta del  vincolo  matrimoniale  e,  dunque,
dotato del massimo grado  di  tutela  giuridica.  Per  effetto  della
rettificazione dell'attribuzione di sesso il preesistente  matrimonio
rimane deprivato di qualsiasi ancoraggio  giuridico  e  di  qualsiasi
forma di tutela, pur essendo stato legittimamente celebrato  e,  cio'
che piu' rileva, pur mancando il consenso di entrambi i coniugi  alla
produzione di tale radicale effetto. 
    Il vulnus al diritto a mantenere  ferma  l'opzione  per  la  vita
familiare  coniugale  appare  ancor  piu'  accentuato  nei  confronti
dell'altro coniuge, costretto a subire le gravi conseguenze sulla sua
sfera  emotiva,  e  sull'assetto  giuridico  delle   proprie   scelte
relazionali,  della  rettificazione  di  sesso   operata   dall'altro
coniuge,  trovandosi  ipso  iure,  e  in  contrasto  con  la  propria
volonta', nella condizione di essere privato dello status  coniugale.
Il sacrificio, in questa ipotesi, e' del tutto unilaterale e privo di
alcuna compensazione,  costituendo  esclusivamente  la  soppressione,
mediante   ingerenza    statuale,    della    volonta'    individuale
nell'esercizio  del  diritto  personalissimo  allo  scioglimento  del
matrimonio. Gli effetti imperativi  della  norma  non  trovano  alcun
bilanciamento rispetto  alla  posizione  del  coniuge  che  si  trova
privato di un fondamentale diritto della persona,  costituzionalmente
garantito dagli artt. 2 e 29 Cost. 
    Appare pertanto configurabile un contrasto  tra  l'art.  4  della
legge n. 164 del 1982 e gli artt. 2 e 29 della Costituzione e con gli
artt. 8 e 12 della CEDU, nella parte in cui  la  norma  censurata  fa
conseguire come effetto automatico del passaggio in  giudicato  della
pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso lo  scioglimento
o la cessazione degli effetti civili  del  matrimonio  contratto  dal
soggetto che ha esercitato il diritto sopra indicato, con conseguenze
irreparabili sulla conservazione  del  vincolo  anche  nei  confronti
dell'altro coniuge. 
    Conforta il prospettato dubbio  di  costituzionalita',  sotto  il
profilo del parametro interposto degli artt. 8 e 12 della  CEDO,  una
recentissima pronuncia della Corte europea dei diritti umani (Caso H.
contro Finlandia 13 novembre 2012), nella quale viene affrontata  una
questione  analoga  a   quello   oggetto   del   presente   giudizio.
Nell'ordinamento finlandese per poter  registrare  la  rettificazione
dell'attribuzione di sesso,  qualora  il  richiedente  sia  unito  in
matrimonio, e' necessario il preventivo consenso  dell'altro  coniuge
al fine di trasformare il  matrimonio  in  unione  civile  registrata
(civil partnership). La Corte ritiene che nella specie coesistano due
posizioni in conflitto che necessitano di' un adeguato bilanciamento:
il diritto al rispetto della vita privata e familiare di chi richiede
la predetta registrazione (nella specie costituita  dall'attribuzione
di un codice identificativo del genere) e l'interesse dello  Stato  a
mantenere intatti  i  modelli  matrimoniali  predefiniti  per  legge.
Rilevato che nel sistema finlandese  e'  previsto  il  riconoscimento
giuridico delle unioni tra  persone  dello  stesso  sesso  e  che  le
modalita' di tutela di  questa  stabile  e  duratura  relazione  sono
sostanzialmente identiche a quelle del matrimonio, anche in ordine ai
diritti dei figli, la Corte EDU ha  osservato  che  il  bilanciamento
d'interessi compiuto dal legislatore non risulta  sproporzionato  ne'
sotto il profilo dell'art. 8, ne'  sotto  quello  dell'art.  12,  ne'
infine sotto quello dell'art.  14,  non  essendo  discriminatoria  la
scelta normativa compiuta. 
    Alla luce delle indicazioni  fornite  da  detta  pronuncia  della
Corte Europea dei diritti umani la  mancanza  di  proporzionalita'  e
l'ingiustificata ingerenza statuale appaiono senz'altro  ravvisabili,
in ordine ai parametri costituiti dagli artt. 8 e 12, in  un  sistema
che non offre alcuna alternativa ai coniugi, determinando una netta e
definitiva soluzione  di  continuita'  tra  passato  e  esente  della
relazione coniugale e decretandone la irreversibile caducazione. 
    Ed invero  nel  nostro  ordinamento,  da  uno  stato  di  massima
stabilita'  e  protezione  giuridica  costituzionale  e  di   diritto
positivo non soltanto codicistico, si trasmigra, contro  la  volonta'
dei componenti la coppia coniugata, verso una  condizione  di  totale
indeterminatezza - attesa l'inesistenza di alternative o di soluzioni
gradate enucleabili dal sistema - del contesto giuridico  all'interno
del quale collocare la relazione dotata all'origine del grado massimo
di tutela. Non puo' essere trascurato, peraltro,  che  la  sfera  dei
diritti complessivamente connessi alla rettificazione di sesso ed  al
fenomeno del transessualismo e' del tutto peculiare e non omologabile
od equiparabile alla condizione della coppie dello stesso  sesso  che
richiedono a vario titolo il riconoscimento delle  proprie  relazioni
stabili. Occorre ancora osservare  che  del  tutto  insufficienti  ad
attuare  un   adeguato   bilanciamento   d'interessi   risultano   le
indicazioni provenienti dalla pronuncia della Corte cost. n. 138  del
2010 e da questa Corte con la sentenza n. 4184 del  2012,  in  ordine
alla riconducibilita' delle unioni tra  persone  dello  stesso  sesso
alle formazioni sociali costituzionalmente rilevanti, con conseguente
sistema   di    tutele    "in    specifiche    situazioni",    attesa
l'incompatibilita' tra  la  condizione  della  coppia  che  non  puo'
accedere all'unione coniugale  e  quella  di  chi  ha  legittimamente
scelto  un'unione  coniugale  proprio  in   virtu'   della   duratura
cristallizzazione dei diritti e degli obblighi ad essa connessi. 
    8.   Si   profila    inoltre    un    rilevante    sospetto    di
incostituzionalita'  della  norma  in  esame  rispetto  al  parametro
costituzionale costituito dall'art. 24 Cost. 
    Ed invero l'art. 2 della legge n. 164 del 1982  (e  l'attualmente
vigente art. 31 del d.lgs. n.  150  del  2011)  nel  procedimento  di
rettificazione di attribuzione di sesso prevede la notificazione  del
ricorso al coniuge ed ai figli, ma la posizione di  litisconsorte  in
tale giudizio, con la conseguente  facolta'  di  adottare  le  scelte
difensive attinenti all'oggetto, non esclude  che  il  coniuge  resti
totalmente privo di tutela con riguardo all'effetto automatico  dello
scioglimento del vincolo a seguito del passaggio in  giudicato  della
sentenza di rettificazione di sesso, non potendo egli opporsi ne'  in
quella sede ne' in separato giudizio a tale scioglimento. 
    9.   L'ingiustificata   compressione   del   diritto   di   agire
giudizialmente  a  tutela  del  mantenimento  dell'unione   coniugale
riguarda peraltro anche il coniuge che procede alla rettificazione di
sesso, il quale puo' agire per il riconoscimento del diritto  ad  una
diversa identita' di genere, ma  deve  subire,  senza  alcuna  tutela
giurisdizionale,  gli  effetti  di  questa  decisione   sul   vincolo
coniugale preesistente. 
    10. Sorge, infine,  non  ravvisandosi  alcuna  altra  ipotesi  di
divorzio "imposto" ex lege che si produca senza l'impulso  giudiziale
di almeno uno dei coniugi, un ulteriore dubbio  di  costituzionalita'
del piu' volte citato art. 4 della legge n. 164 del 1982, rispetto al
parametro costituzionale  costituito  dall'art.  3  Cost.,  correlato
all'art. 24. Con riferimento a tale specifico parametro devono essere
assunte come tertium comparationis le  ipotesi  di  scioglimento  del
vincolo o cessazione degli effetti  civili  del  matrimonio  indicate
nell'art. 3 legge n. 898 del 1970, sub. 1, lettere a), b), c)  e  sub
2), lettera d),  che  non  richiedono  da  parte  del  giudice  alcun
controllo sull'effettiva disgregazione della convivenza familiare, in
quanto si tratta di cause solutorie  che,  per  la  estrema  gravita'
delle condotte che ne costituiscono il nucleo, sono ritenute, con una
valutazione  astratta  e  predeterminata  compiuta  dal  legislatore,
radicalmente  impeditive   della   continuazione   della   convivenza
coniugale. La riserva di giurisdizione e la necessita' della  domanda
di parte, tuttavia, non vengono meno neanche in  queste  fattispecie,
assimilabili sotto il profilo della non necessita'  di  un  sindacato
sulla concreta ed oggettiva situazione coniugale all'ipotesi  di  cui
alla  lettera  g)  oggetto  di  censura.  La  diversita'  di   regime
giuridico,   sotto    il    duplice    profilo    della    necessita'
dell'accertamento giudiziale e della volontarieta'  (quanto  meno  di
uno dei coniugi) della scelta relativa allo scioglimento del vincolo,
relativa alle ipotesi da ultimo descritte comparate a quella  di  cui
all'art. 4 della legge n. 164 del 1982 risulta del tutto priva di una
ragionevole giustificazione, alla luce degli artt. 3 e 24 Cost. 
    11. In conclusione, ritenutane la rilevanza e  la  non  manifesta
infondatezza,  devono  essere  sollevate   per   le   ragioni   sopra
illustrate: 
        1) la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4
della  legge  n.  164  del   1982,   nella   formulazione   anteriore
all'abrogazione intervenuta per effetto dell'art. 36 del d.lgs n. 150
del  2011,  nella  parte  in  cui  dispone   che   la   sentenza   di
rettificazione  di  attribuzione  di   sesso   provoca   l'automatica
cessazione degli effetti civili  conseguenti  alla  trascrizione  del
matrimonio celebrato con rito religioso senza la  necessita'  di  una
domanda e di una pronuncia giudiziale, con riferimento  ai  parametri
costituzionali degli artt. 2 e 29 Cost.,  e,  in  qualita'  di  norme
interposte, ai sensi degli artt. 10, primo comma, e 117 Cost.,  degli
artt. 8 e 12 della Convenzione  Europea  dei  Diritti  dell'Uomo  con
riguardo ad entrambi i coniugi; 
        2) la questione di legittimita' costituzionale degli artt.  2
e 4 della  legge  n.  164  del  1982  con  riferimento  al  parametro
costituzionale dell'art. 24 Cost., nella parte in  cui  prevedono  la
notificazione del ricorso per rettificazione di attribuzione di sesso
all'altro coniuge, senza riconoscere a  quest'ultimo  il  diritto  di
opporsi allo scioglimento  del  vincolo  coniugale  nel  giudizio  in
questione, ne' di esercitare il medesimo potere  in  altro  giudizio,
essendo esclusa la  necessita'  di  una  pronuncia  giudiziale  dalla
produzione ex lege dell'effetto solutorio in virtu' del passaggio  in
giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso; 
        3) la questione di legittimita' costituzionale degli artt.  2
e 4 della legge n. 164 del 1982 con riferimento  all'art.  24  Cost.,
negli stessi termini di cui sub 2), con riguardo al  coniuge  che  ha
ottenuto la rettificazione di attribuzione di sesso; 
        4) la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4
della  legge  n.  164  del  1982   con   riferimento   al   parametro
costituzionale dell'art. 3 Cost., per l'ingiustificata disparita'  di
regime giuridico tra l'ipotesi di scioglimento  automatico,  operante
ex lege, del vincolo coniugale previsto da tale  norma  in  relazione
all'art. 3, quarto comma, lettera g) della legge n. 898  del  1970  e
successive modificazioni e le altre ipotesi indicate in detto art. 3,
sub. 1, lettere a), b), c) e sub 2 lettera d).